Hamas apre alla tregua, Nelli Feroci: «La proposta sui due Stati una provocazione poco credibile»

L’ambasciatore: “Appare possibile che sia solo un modo per mettere in difficoltà il governo di Netanyahu”

Hamas apre alla tregua, Nelli Feroci: «La proposta sui due Stati una provocazione poco credibile»
di Marco Ventura
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Venerdì 26 Aprile 2024, 06:35 - Ultimo aggiornamento: 14:22

«Pronti a deporre le armi se Israele riconosce la Palestina». L’offerta di Khalil al-Hayya, uno dei capi di Hamas, è credibile? «Dubito che lo sia, soprattutto all’orecchio degli israeliani. Ma dove Hamas voglia andare a parare con quest’affermazione è più difficile da decifrare. Se fosse una proposta seria sarebbe una novità interessante, una prima volta, ma la prenderei comunque con grande beneficio di inventario». È prudente nei giudizi l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, già Commissario Europeo e rappresentante dell’Italia presso la Ue. «La prima iniziativa che ci si attende da Hamas è che accetti un negoziato vero sul rilascio degli ostaggi e un’interlocuzione con le autorità israeliane riguardo a una possibile soluzione della crisi. Di per sé, l’uscita di Hamas è solo futuribile».

Fra l’altro non sembra che Hamas voglia riconoscere Israele?

«La soluzione dei due popoli e due Stati presuppone il riconoscimento della statualità di Israele, è ovvio, che però non è mai stata neppure presa in considerazione da Paesi come l’Iran: l’ostacolo è anche quello, al netto delle difficoltà sul fronte israeliano, perché oggi neppure le autorità di Tel Aviv, e soprattutto questo governo, credono alla soluzione dei due Stati».

Che dire delle due leadership a confronto? Hamas e Netanyahu?

«Fino al 7 ottobre, paradossalmente erano funzionali l’una all’altra.

Non è un mistero che Netanyahu abbia utilizzato la carta di Hamas, tollerandone la presenza a Gaza e consentendo che arrivassero i finanziamenti da Qatar e altri Paesi perché così poteva dimostrare che era impossibile trattare con i palestinesi, non volendo riconoscere Israele e avendo natura terroristica. Si può dire che vi fosse tra le due leadership una corrispondenza d’intenti».

E oggi?

«La situazione è cambiata. L’obiettivo del governo Netanyahu è la distruzione fisica, l’eliminazione totale della testa di Hamas e allo stesso modo la leadership di Hamas non può considerare Israele un interlocutore. La proposta di deporre le armi in cambio del riconoscimento dello Stato palestinese contraddirebbe, proprio per questo, una linea consolidata di quel movimento, ma in fondo potrebbe essere soltanto una provocazione studiata a tavolino per mettere in difficoltà il governo israeliano».

E se fosse un passo verso un accordo sugli ostaggi?

«Purtroppo, tutti i tentativi per avviare un’interlocuzione su questo tema sono falliti nonostante diversi Paesi si siano offerti per mediare. Non ci sono stati progressi sostanziali e la spiegazione è semplice: per Hamas, gli ostaggi sono una carta da giocare in funzione di un disegno diverso, i cui contorni non sono chiari, ma in ogni caso un certo numero di prigionieri sono uno strumento di pressione straordinario su Israele. Per la prima volta l’esecutivo di Netanyahu mostra di non prendere seriamente in considerazione il problema degli ostaggi, mentre in passato il governo aveva accettato condizioni capestro pur di liberare i prigionieri. Adesso la priorità sembra essere distruggere Hamas».

Israele è un Paese profondamente diviso adesso?

«Ancora una volta, è paradossale che il 7 ottobre e gli sviluppi successivi abbiano consentito a Netanyahu di compattare una maggiore unità nazionale in un Paese che prima era verticalmente spaccato sulla riforma della giustizia e sulla stessa legittimazione di Netanyahu come leader. Di fronte alla minaccia esterna diretta, queste divisioni si sono affievolite. Ma quando si concluderanno le operazioni a Gaza, si arriverà a una qualche resa dei conti. Non basteranno le dimissioni del capo dell’Intelligence militare, ci sarà una Commissione d’inchiesta che potrà indagare anche sulle responsabilità del Primo ministro».

Nel frattempo, sono in subbuglio gli alleati e le comunità ebraiche fuori di Israele…

«Israele era riuscito a coagulare una straordinaria solidarietà internazionale dopo il 7 ottobre, oggi invece è in una condizione di isolamento politico, diplomatico e reputazionale che si aggrava ogni giorno che passa e però non sembra essere la principale preoccupazione delle autorità israeliane. Dal 1948 a oggi, non è facile ritrovare una situazione così critica di quelli che sono i rapporti tra Israele e gli Stati Uniti. Non siamo arrivati ancora al punto di rottura e alla cessazione delle forniture militari, ma l’insofferenza del Presidente Biden verso Netanyahu è più che evidente».

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