Cous Cous, come si prepara: le ricette, dalla versione con agnello ai sette legumi a quella con manzo e maiale macinati

Duttile e versatile, questo piatto (già patrimonio dell’Unesco dal 2020) viene celebrato dal Campionato del Mondo a San Vito Lo Capo, nel Trapanese: una sfida a colpi di variazioni sul tema

Cous Cous, come si prepara: le ricette, dalla versione con agnello ai sette legumi a quella con manzo e maiale macinati
di Giacomo A. Dente
3 Minuti di Lettura
Martedì 7 Maggio 2024, 00:37

Benrhouma Messaouda, Tunisia; Alice Hasan Salim, Palestina; Khadija Bensdira, Marocco; Sidali Lahlou, Algeria; Abibata Konatè, Costa d’Avorio; Alice Delcourt, Francia; Helt Araújo, Angola; Mareme Cisse, Senegal; Pierpaolo Ferracuti, Italia; Rodrigo Zepeda Sánchez, Messico: un elenco non casuale, unito da un forte fil rouge, perché si tratta dei nomi di alcuni dei vincitori, a partire dal 1998, del Campionato del Mondo di Cous Cous. La cornice è San Vito Lo Capo, un borgo del Trapanese dove il cous cous è nel dna dei suoi abitanti ormai da secoli. Una kermesse dove si parla di Mediterraneo e di variazioni sul tema di questo piatto, dal 2020 patrimonio mondiale dell’Unesco al pari della pasta, ma dove i veri temi di fondo sono la multiculturalità e l’amicizia tra i popoli. Africa, bacino del Mediterraneo, mondo (il vincitore 2023 è un messicano) il cous cous è per sua natura un formato duttile, diasporico, che si presta a numerose variazioni e felici contaminazioni con i repertori cucinari dei paesi più diversi.

SCIENZA IN CUCINA

Pellegrino Artusi, padre nobile delle cucine dell’Italia Unita col suo la Scienza in cucina e l’arte di mangiare bene del 1891, lo chiama ‘cuscussù’, definendolo un ‘grande intruglio’ che i discendenti di Mosè e di Giacobbe hanno, nelle loro peregrinazioni, portato in giro per il mondo, ma chi sa quante e quali modificazioni avrà subite dal tempo e dal lungo cammino percorso. Ora è usato in Italia per minestra dagli israeliti’. Sulle origini del ‘keskesu’, parola che descrive il gesto rituale della mano che separa i grani dell’alimento’ i pareri sono controversi. Per certo già nel XIII secolo si trova descritto nelle province berbere del Nord Africa, ma resoconti di antichi viaggiatori ne trovano versioni anche nell’Africa Occidentale.

La partenza è il grano duro da cui si ricava la semola.

Poi con successivi processi di idratazione, di lavoro manuale, di passaggio per setacci si arriva ad avere delle perline che, passate al vapore, almeno due volte si prestano ad essere accompagnate a verdure, pesce o carne con aggiunta di spezie. Un rituale che si accompagna ad utensili che parlano di storie antiche, basta vedere in Sicilia le classiche ‘mafaradde’, il grande piatto svasato per la lavorazione della semola e le ‘cuscusiere’ a due livelli (uno coi buchi per far passare il vapore).Grano duro, ma anche miglio, sorgo, riso, farro, sono le basi del piatto che, dopo la cottura al vapore, diventa accompagnamento di umidi e intingoli senza limiti per la fantasia per lo chef. In Occidente si consuma con la forchetta, ma il modo tradizionale è, ovviamente, con le mani. C’è persino un galateo: tre dita soltanto, perché il diavolo mangia con un dito, il Profeta con due e l’ingordo con cinque.Poi non resta che il viaggio nei sapori.

LE REGIONI

Si può spaziare dalla versione con agnello ai sette legumi resa celebre dallo stellatissimo Alain Ducasse a quella con manzo e maiale macinati con l’aggiunta di pomodoro e peperoncini del messicano Rodrigo Zepeda Sanchez, vincitore dell’ultima edizione del Cous Cous Fest. O ancora, trasferirsi nei luoghi del cous cous, da San Vito Lo Capo, per la versione col pesce a Carloforte, dove il ‘cascà’ viene preparato coi ceci e col cavolo cappuccio. Ma soprattutto varrebbe la pena di osservare, in nome della pace, l’identità culturale, al di là degli odi, che esiste anche nella dimensione della lavorazione dei chicchi tra il qūsqūs israeliano e il maftūl palestinese. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA