Paolo Balduzzi
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Lezione Montessori/ La scuola d’estate, un modello da replicare

di Paolo Balduzzi
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Giovedì 18 Aprile 2024, 00:30 - Ultimo aggiornamento: 00:35

È difficile ricordare periodi, perlomeno nella storia recente, in cui la scuola riempiva così tanto il dibattito pubblico e le pagine dei giornali. I motivi sono i più disparati: da quelli più controversi, come il sistema delle valutazioni degli alunni, a quelli meno onorevoli, come la gestione delle occupazioni studentesche che sfociano in vandalismi. L’ultima occasione, perlomeno in ordine di tempo, è data dalle polemiche, francamente immotivate, sulla proposta del ministro Valditara di tenere le scuole aperte anche d’estate. Le posizioni in campo sono note. Da un lato, chi sostiene che le scuole dovrebbero rimanere aperte più a lungo, perché per le famiglie è costoso e problematico organizzarsi per tre mesi; dall’altro lato, chi sostiene che i ragazzi hanno tutto il diritto di staccare la spina e di riposarsi, specialmente durante i torridi mesi estivi. Il problema di queste due posizioni piuttosto estreme è che si basano su questioni di principio. Si può anche essere d’accordo con entrambe: ma qui il punto non è quale dei due principi sia quello corretto, bensì se la specifica proposta del governo, nei suoi dettagli, sia valida oppure meno. E basterebbe leggersi decreto e circolare di accompagnamento per capire che lo è. Seppur con alcuni limiti, che sono l’oggetto di questa riflessione. Innanzitutto, il governo aggiunge un elemento fondamentale, che prima scarseggiava: i fondi. Saranno dunque 400 milioni in totale, 80 in più che in passato, quelli dedicati all’iniziativa “Scuole aperte d’estate”. E ciò apre la porta a una seconda osservazione rilevante: non si tratta di una novità, bensì di un potenziamento. La retorica delle scuole chiuse d’estate, infatti, non è più vera da qualche anno. O, perlomeno, non lo è più per tutti gli istituti. Anche grazie all’iniziativa di esecutivi precedenti, nonché alla buona volontà di docenti e dirigenti scolastici, la possibilità di offrire alternative per i mesi estivi ai propri studenti esiste già. Il problema è che, come spesso accade nel nostro paese, dove la retorica esige diritti uguali per tutti ma l’evidenza mostra esattamente il contrario, questa opzione dipende in maniera fondamentale dalla fortuna o meno degli alunni.

E qui sta forse la debolezza principale di questo piano: quella di parlare prima alle scuole e poi alle famiglie. È possibile immaginare un approccio che, al contrario, metta al centro gli studenti e i loro genitori e fornisca a essi dei fondi, magari nella forma di voucher, da utilizzare dove meglio credono, secondo l’offerta delle realtà esistenti (oratori, associazioni sportive o culturali, comuni, le scuole stesse, etc.). Questo permetterebbe, inoltre, di favorire un ricambio di contesto e di compagni di riferimento. In altri termini, stimolerebbe la capacità di socializzazione e di adattamento dei ragazzi, li metterebbe a confronto con altri e diversi ambienti, e ridurrebbe le differenze esistenti tra scuole di eccellenza e scuole più in difficoltà. Per il resto, il Piano messo in atto sembra estremamente valido. La ricchezza delle possibilità offerte, tuttavia, si accompagna a un piccolo cruccio. Sulla carta, le scuole potrebbero offrire d’estate innumerevoli attività formative, da far certamente invidia a noi poveri genitori costretti al lavoro: riscoperta della natura e dell’ambiente circostante, valorizzazione del territorio e della sua storia, inserimento di laboratori e di nuove discipline extracurricolari. Perché mai tutto questo dovrebbe essere limitato a qualche settimana estiva e non diventare un approccio abituale del nostro sistema educativo? Dove sta scritto, cioè, che imparare attraverso le mani e l’esperienza, soprattutto nelle età più giovani, sia meno efficace e importante che usando libri e quaderni? Anzi, a volte è vero proprio il contrario, perlomeno secondo alcuni metodi educativi, come quello montessoriano. Quale paradosso sarebbe se tutti questi esperimenti dimostrassero come i ragazzi imparino di più (e magari anche più volentieri) in estate che negli altri mesi. Perché le scoperte e le innovazioni, anche nelle scienze sociali, possono benissimo arrivare per caso. E tentare, quindi, non nuoce affatto.

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